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Testo pubblicato sul Resto del Carlino, Pesaro del 03.06.2015
Mentre sfoglio la prima antologia italiana degli scritti di Le Corbusier edita nel 1945 da Rosa & Ballo, mi colpisce una frase del maestro: “Ho appreso dal passato la lezione della storia, la ragione d’essere delle cose: ogni evento, ogni oggetto sono «in relazione a…»”.
Il curatore è un giovane ingegnere, Giancarlo De Carlo, iniziato all’architettura durante gli anni della Resistenza da Giuseppe Pagano, uno degli architetti più raffinati del primo Novecento.
Quanto la storia abbia influenzato il pensare e fare architettura di Giancarlo De Carlo, e quanto dalla storia egli abbia preso e appreso, è facile a dirsi; basti qui citare semplicemente la progettazione della Urbino contemporanea.
Quasi mai capito, ancora oggi personaggio scomodo, a lui devono qualcosa un po’ tutti, sebbene siano in pochi ad ammetterlo: “Devo molto a Giancarlo De Carlo. E per quello che a lui mi accomuna e per quello che da lui mi divide … non ha mai cessato di darmi delle cose: e quando non me le ha date me le sono prese”, ha scritto di lui Renzo Piano.
Della sua poetica, l’aspetto più considerevole e affascinante resta il dialogo. Il dialogo con cui egli ha costruito le sue architetture, il dialogo della partecipazione; il dialogo con la memoria, con la città, col paesaggio. Il dialogo presuppone l’ascolto e l’ascolto presuppone la costante presenza dell’altro sia esso fruitore, utente, committente, politico, amico, uomo.
Giancarlo De Carlo è morto il 4 Giugno del 2005. A dieci anni dalla sua scomparsa, la grande eredità che lascia alle nuove generazioni è proprio quella lezione della storia da cui eravamo partiti: ogni fatto o evento, ogni cosa è in relazione a, in dialogo con. Egli consegna alla storia un’architettura “che torni ad essere primo riferimento concreto del consistere umano nello spazio fisico e sociale; un’architettura che non si può ignorare, al punto che ciascuno deve finire col progettare, che nessuno può fare a meno di progettare”.
In un mondo dove lo spazio di relazione e di condivisione è sempre meno fisico e sempre più virtuale, la sua architettura insegna che un’esistenza non basta a cambiare lo stato delle cose, ma che tutte, anche le nostre, sono necessarie per farlo. È la grande utopia del Novecento: l’architettura come impegno sociale:
“Posso dire che la cosa più affascinante sulla faccia della terra sono per me gli essere umani … gli esseri umani passano attraverso un processo di composizione complessa dal quale escono sempre nuovi, sempre diversi e sempre interessanti. Allora, io, tutto sommato, lavoro per loro”.
Tiziana Fuligna